Partiamo dal Principio del minimo sforzo.
È quello che il linguista George Kingsley Zipf ha individuato nel 1949 relativamente all’uso delle parole, ma che può essere applicato a tutti i comportamenti umani.
In pratica, in ogni sua manifestazione, l’attività dell’uomo tende ad ricercare il massimo risultato con il minimo sforzo. Un principio di economia delle energie vitali che – anche se in modo abbastanza relativo – è presente anche nell’arte.
Seguono questa regola, ad esempio, tutte quelle forme d’arte estremamente stilizzate, realizzate con pochi segni essenziali.
È chiaro che lo sconosciuto scultore cicladico o il pittore Lucio Fontana non hanno operato in questa direzione per fare meno fatica (lo so che per Fontana avete qualche dubbio…) ma per cercare una forma di espressione in più possibile sintetica.
È proprio un modo di guardare al mondo: andare per sottrazione, eliminare il superfluo, cercare la sostanza. È la concezione opposta a quella fiamminga, quella che osserva il mondo con il microscopio e che va per addizione, per precisazione progressiva dei dettagli.
È come se i primi si allontanassero perdendo i particolari, e i secondi si avvicinassero (perdendo l’insieme?).
Poi c’è una via di mezzo (ed è di questa, in realtà, che voglio parlarvi). Si tratta di quelle immagini che appaiono particolareggiate solo fino ad una certa distanza. Immagini “discretizzate“, suddivise in piccole porzioni che l’occhio ricompone in campiture omogenee.
Tra gli esempi più antichi troviamo i mosaici, scene raffigurate con tessere quadrangolari in pietra, terracotta o pasta vitrea di circa 1 cm (o anche meno) di lato. Ecco: un mosaico visto da lontano può apparire quasi un’immagine dipinta dato che le unità cromatiche che lo compongono (cioè le tessere) appaiono fuse con quelle adiacenti.
Quasi duemila anni dopo questo stesso principio sarà applicato dal puntinista Georges Seurat che le tessere, in pratica, le dipinge!
La differenza tra un mosaico romano e un dipinto puntinista, però, sta nel fatto che in quest’ultimo è applicata la teoria della ricomposizione retinica dei colori scoperta, nella prima metà del XIX secolo, da un chimico francese.
Michel Eugène Chevreul, che lavorava per un’industria tessile, si accorse accidentalmente (potere del caso!) che due fili di lana accostati di due diversi colori apparivano di un terzo colore se visti da lontano. Seurat, dunque, dipinge così: accostando puntini sulla tela la cui visione, ad una certa distanza, dà un colore diverso, non presente fisicamente sul quadro.
Per tutte le immagini che vengono viste da lontano si può dire che valga la stessa regola: arrivare al dettaglio estremo costituisce una sorta di ridondanza comunicativa, uno sforzo che non produce risultato, giusto per riprendere Zipf.
Lo sapeva bene Michelangelo che nella volta della Cappella Sistina (1508-1512) ha reso con pennellate molto “grossolane” ciò che dal basso appare preciso e dettagliato.
Ed anche Leonardo usava il disegno in questo modo.
Impreciso, rapido, a tratteggi sovrapposti, per evocare forme più che per definirle. Un albero, così, non è che un gruppo di linee scarabocchiate. Nella vista d’insieme di però, l’immagine si ricompone in sagome riconoscibili, sebbene vibranti per via dell’aria interposta. Una sorta di Impressionismo ante litteram…
Leonardo, "Paesaggio con l'Arno", 1473
Per gli impressionisti, d’altra parte, l’idea di cogliere la realtà e la sua atmosfera con pennellate rapide e grosse, mescolate direttamente sulla tela, è proprio il senso della loro pittura. Una riduzione di dettagli che arricchisce l’immagine di vibrazioni luminose.
“Less is more” diceva Ludwig Mies van der Rohe per l’architettura. E io direi che vale anche per questi dipinti.
Claude Monet, Paesaggio, Il Parc Monceau, 1874
Si può dire che sia una questione di “risoluzione” come per le immagini sui monitor. Queste, infatti, non hanno una definizione infinita.
Quelle di quest’articolo, ad esempio, hanno una risoluzione di 72 dpi (una grandezza che indica la “densità” di informazioni cromatiche). Ecco cosa succede se ingrandisco un paio di dettagli della natura morta di Bruegel vista sotto. Appaiono sgranati, si vedono i pixel!
Per poter mostrare “nitidamente” i dettagli dei fiori, del bruco e delle falene, ho dovuto cercare immagini che fossero già molto più grandi degli 800 pixel di base che hanno tutte le figure di questo articolo.
Naturalmente non è detto che vedere i pixel sia necessariamente un problema. C’è chi ne ha fatto addirittura una forma d’arte come Aldo Sergio con la sua “Madonna dei Pixel” e dipinti simili …
Aldo Sergio, "Madonna dei Pixel" e "Sulla riva", oil on canvas, 2013
Totalmente “pixellati” sono invece i dipinti di Yuri Yudaev. Ogni tassello ha un suo colore e le sue dimensioni fanno sì che per percepire meglio la figura occorra socchiudere gli occhi.
I pixel di Guy Whitby, invece, sono pezzi di tastiera, presine all’uncinetto, ciambelline e altro assemblati in digitale.
Charis Tsevis, invece, utilizza delle delicate piastrelle azzurre scegliendone accuratamente l’accostamento. Risultati davvero sorprendenti sia visti da vicino che da lontano!
Mary Ellen Croteau ha sostituito i pixel con tappi di bottiglia: un’idea interessante che gioca tra l’ambiguità della risoluzione visiva e il riuso creativo dei rifiuti.
Anche Zac Freeman usa oggetti d’uso comune mescolando materiali di ogni genere.
La varietà cromatica è tale da riuscire ad ottenere degli effetti quasi pittorici. Non è un lavoro troppo difficile, però richiede pazienza e capacità di distinguere tra sfumature di colore molto simili.
Mi piace pensare, però, che il tema della risoluzione abbia un risvolto un po’ più filosofico oltre che pittorico.
La realtà frammentata, spesso caotica in cui ci agitiamo senza trovarne il senso, forse può apparire meno confusa se facessimo un passo indietro, allontanando il punto di vista, guardando alle cose con distacco (fisico e mentale).
Vale per un dipinto puntinista, ma vale ancora di più nel nostro rapporto con il mondo.
da un articolo di Emanuela Pulvirenti del 14 maggio 2015