DANTE, DIVINA COMMEDIA, PARADISO, CANTO XXIII, 133-138
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio (1) ond’ elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova (2);
ma non eran da ciò le proprie penne (3):
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne (4).
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva (5) il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
(1) il rapporto tra il diametro e la circonferenza, espresso dalla costante π (“pi greco”).
(2) neologismo dantesco formato da in + dove per “collocarsi, trovare luogo”.
(3) l’immagine che Dante utilizza per significare che il suo ingegno (le “penne”) non sa restituire sulla pagina l’effetto della folgorazione con cui Dio gli concede l’ultimo balzo sovralogico per arrivare all’intuizione della Verità suprema.
(4) così che avvenne quella cosa che il volere divino volesse che avvenisse: la visione del mistero.
(5) “placava, diminuiva”. Il soggetto è “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, cioè Dio.
PARAFRASI
Come un geometra che si concentra
per la quadratura del cerchio, e non ci riesce,
riflettendo sulla formula di cui avrebbe bisogno,
così ero io a quella vista eccezionale:
volevo vedere come l’immagine umana
s’adeguasse al cerchio e come vi si collocasse;
ma non era sufficiente il mio intelletto:
se non che la mia mente venne percossa
da un lampo così che avvenne ciò che Lei volle.
All’immaginazione ora mancò la capacità,
ma già il mio desiderio ed il volere erano soddisfatti,
come una ruota che si muove di moto uniforme,
dall’amor che muove il sole e le altre stelle.
Come lo studioso di geometria (il geometra) si concentra al massimo (tutto s’affige)
per risolvere il problema della quadratura del cerchio (misurar lo cerchio) e non vi riesce (non ritrova)
perché gli manca (indige) quel teorema (quel principio)
così ero io (tal era io) per vedere (veder volea) come si adattasse (come si convenne) quella visione straordinaria (vista nova) del riflesso (imago) di una figura che si colloca (s’indova) dentro al cerchio.
Per apprezzare la potenza e la raffinatezza della similitudine dei primi quattro versi, occorre capire bene il significato dell'impossibilità citata da Dante.
Quadratura del cerchio significa trovare un rettangolo la cui area è uguale a quella di un cerchio di raggio dato.
Quindi niente di più facile, tutti sappiamo fin dalla Scuola Elementare che il problema si risolve facilmente: l’area del cerchio vale πr2, quindi basta prendere un rettangolo di base πr e altezza r. Dove sta allora la difficoltà?
Il problema è che nell’antica Grecia i problemi di geometria dovevano essere risolti mediante costruzioni geometriche che prevedessero il solo uso di riga (non graduata) e compasso. Una specie di ginnastica mentale, o prova di abilità, una regola prefissata. Dante sa benissimo calcolare l’area del cerchio, tanto che per misurare una bolgia (circolare) dell’Inferno usa l’approssimazione 22/7 = 3.1428..., comunemente usata al posto di π = 3.1415...nei libri d’abaco del medioevo, testi contenenti problemi e esempi di calcoli matematici usati per scopi pratici, sicuramente ben noti a Dante.
Quindi la sottigliezza della similitudine è davvero notevole: la quadratura del cerchio (così come l’incarnazione di Cristo) non è impossibile da ottenere in linea di principio, ma diventa impossibile se ci si limita all’utilizzo di determinati strumenti, come riga e compasso per la quadratura del cerchio o la limitata mente umana per l’incarnazione. A questo punto si potrebbe affermare che Dante non è stato sufficientemente chiaro, avrebbe dovuto dire: "qual è ‘l geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio con riga e compasso e non ritrova ...".
Ma Dante non ne sente il bisogno, perché ogni persona colta del suo tempo sapeva che i problemi della geometria greca si affrontano con riga e compasso. Evidentemente considera ovvio che chi sa intendere e apprezzare uno scritto poetico conosce bene i testi classici di geometria.
E lo stesso dicasi per l'aritmetica pratica insegnata nelle scuole d'abaco del suo tempo. Infatti, per dire che c’erano tanti angeli in cielo, nel seguente passo del Paradiso, Canto XXVIII, versi 91-93, Dante ricorre alle progressioni geometriche.
L’incendio suo seguiva ogni scintilla;
ed eran tante, che ’l numero loro
più che ’l doppiar delli scacchi s’inmilla.
Qui si parla di un incendio con tante scintille, usate come metafora per rappresentare la moltitudine degli angeli. Ma per dare un’idea di quanto siano numerose queste scintille (ovvero gli angeli) Dante fa riferimento alla famosa leggenda di Sissa Nassir, l’inventore degli scacchi, al quale il re promise qualunque ricompensa per la meravigliosa invenzione.
L’arguto inventore fece una richiesta in apparenza assai modesta: presa la scacchiera, il solito quadrato formato da 8 per 8 caselle, chiese un chicco di grano sulla prima casella; il doppio, cioè 2 chicchi, sulla seconda; il doppio ancora, cioè 4, sulla terza; il doppio ancora, cioè 8, sulla quarta; e così via, fino all’ultima casella, la sessantaquattresima.
La quantità totale di chicchi è la somma dei primi 64 termini di una serie geometrica di ragione 2:
1+2+22+23+ ...+263= 264−1 =18 446 744 073 709 551 615, numero praticamente illeggibile.
Il che spiega perché il sovrano si sentì preso in giro e, anziché premiare Sissa Nassir, gli fece mozzare la testa.
Questa leggenda era riportata come esercizio (o come gioco matematico) in molti libri d’abaco, libri che certamente Dante conosceva. Il gioco del “raddoppiare” o della progressione geometrica (o esponenziale) era uno dei più comuni, in quanto anche il calcolo degli interessi composti, praticato dalle banche, è una progressione geometrica.